La guerra dell’acqua
Tra le risorse fondamentali per un Paese vi sono le fonti energetiche (in specie gli idrocarburi) e l’acqua. Attualmente gli strateghi dell’ISIS stanno sfruttando al meglio le loro ricchezze liquide: l’oro nero e l’oro blu. Da un lato rivendendo, clandestinamente (ovvero fuori dai circuiti ufficiali), barili di petrolio alla metà del prezzo di mercato, massacrando la concorrenza e dettando così legge negli scambi del crude oil. E dall’altro chiudendo le dighe e deviando i fiumi, con lo scopo di affamare intere popolazioni.Gli estremisti sunniti del “califfato”, anziché spendere soldi ed energie colpendo con mezzi militari le popolazioni sciite a loro avverse, hanno constatato che si può ottenere lo stesso risultato privandole delle risorse idriche. Nonostante i curdi stiano opponendo una disperata difesa armata contro l’egemonia del “califfato”, le loro armi nulla possono contro il prosciugamento dei condotti idrici.
I primi ad avvalersi del controllo dell’acqua come strumento di guerra, sono stati i turchi, nel marzo scorso. La Turchia infatti, resasi conto che lo scontro tra i ribelli siriani e gli “Assadisti” stava degenerando in un fervento religioso sempre più coordinato, aveva chiuso le sue dighe. Trovandosi ad una altitudine maggiore rispetto al territorio siriano, ovvero a monte del bacino idrografico che alimenta alcuni Paesi limitrofi, tra cui la Siria, ha prosciugato il lago artificiale Assad (il più grande bacino lacustre artificiale siriano, formatosi dopo la costruzione della diga di Tabaqa nel 1973 lungo il tratto siriano del fiume Eufrate), principale fonte idrica del “califfato”. Come risposta l’ISIS, che aveva stabilito la sua capitale nei pressi di Raqqa e non ha ritenuto sufficienti i miseri 222 metri cubi d’acqua al secondo riversati dalla Turchia, ha iniziato a minacciare una rappresaglia per mezzo degli stessi strumenti. Abu Mosa, portavoce jihadista, aveva minacciato che avrebbe chiuso le dighe. E così infatti è stato. Dal luglio 2014 i miliziani dell’ISIS hanno preso il controllo dei fiumi Tigri ed Eufrate, chiudendo i rubinetti che dissetavano gli “eretici” sciiti dell’Iraq. Nello stesso modo hanno assetato i cittadini di Aleppo, che si sono visti costretti ad assumere acqua da fonti non sicure.
Dato che le risorse idriche sono necessarie alle popolazioni locali per irrigare i campi, la guerra dell’acqua del “califfato” islamico sta assumendo toni sempre più drammatici. Nei mesi scorsi, i seguaci di Abu Bakr, con lo scopo di assetare un villaggio di sciiti, hanno chiuso la diga di Falluja, facendola però straripare, causando la morte di oltre 4000 sostenitori dello stesso “Califfo”. Non solo ma, oltre al controllo delle dighe, hanno promosso anche un’opera di deviazione di due fiumi nella zona Balad Ruz, nella provincia di Diyala, inondando nove villaggi.
Appare evidente, dunque, come il controllo dell’acqua possa portare all’eccidio su vaste aree, così come anche il controllo delle fonti energetiche. Utilizzando la carestia come strategia, i miliziani dell’ISIS hanno infatti privato dell’elettricità, necessaria per pompare l’acqua dai pozzi, diversi villaggi curdi. Finché gli Stati Uniti non si decideranno ad intervenire concretamente per liberare le dighe e i fiumi mediorientali, difficilmente potranno vantarsi d’aver preso parte ad un vero soccorso umanitario.
Nessun commento:
Posta un commento